Quali norme regolano il trasferimento del lavoratore
Il trasferimento del lavoratore dipendente
Il trasferimento del lavoratore dipendente è un tema da sempre molto delicato, che grazie alle correnti garantiste che impegnano il diritto del lavoro, è rigorosamente disciplinato dal legislatore, al fine di evitare abusi da parte dei datori di lavoro. Come cercheremo di analizzare, ciò che la normativa sul trasferimento dei dipendenti intende tutelare, è la posizione del lavoratore, a fronte del potere “unilaterale” del datore di lavoro di modificare il luogo della prestazione lavorativa: la ratio è quella di evitare che il datore di lavoro realizzi trasferimenti discriminatori o del tutto arbitrari, non basati su effettive ragioni tecniche, organizzative e produttive.
La normativa sul tema del trasferimento del lavoratore subordinato è contenuta in primo luogo nel comma 8 dell’art. 2103 cod. civ. che sarà abbondantemente analizzato, nelle disposizioni contenute nella legge n. 183 del 2010 in materia di impugnazione dei trasferimenti di lavoro, e nei contratti collettivi di lavoro.
Dopo avere dato una definizione al trasferimento del lavoratore, ed analizzate le sue differenze con la trasferta e il distacco, l’articolo si sofferma sulle differenze tra il trasferimento nel pubblico impiego e nel settore privato.
Vengono trattati alcuni casi particolari, come quello del trasferimento del lavoratore disabile, e del trasferimento della lavoratrice madre, nonché il rapporto tra trasferimento d’azienda e la tutela del lavoratore.
Infine, ci si sofferma sulla possibilità e sulle tempistiche dell’impugnazione del provvedimento di trasferimento di lavoro.
Nello specifico i temi trattati sono i seguenti:
- Cos’e’ il trasferimento del lavoratore
- Il trasferimento del lavoratore all’interno dell’unità produttiva
- Quale differenza tra la trasferta e il trasferimento del lavoratore dipendente
- Quale differenza tra distacco e trasferimento del lavoratore
- Quali sono le condizioni del trasferimento del lavoratore?
- L’autonomia del datore nel trasferimento del lavoratore
- Come deve avvenire il trasferimento del lavoratore
- Come funziona il trasferimento del lavoratore nella pubblica amministrazione
- Trasferimento del lavoratore: cosa si intende per passaggio diretto dei dipendenti
- Trasferimento del dipendente: il trasferimento della lavoratrice madre
- Quando è possibile il trasferimento del lavoratore disabile
- Quali sono le regole a tutela dei dipendenti nelle ipotesi di trasferimento d’azienda
- Trasferimento del lavoratore: quando possono essere rifiutati i trasferimenti di lavoro?
- Come impugnare il provvedimento di trasferimento del lavoratore
COS’E’ IL TRASFERIMENTO DEL LAVORATORE
Nel linguaggio comune, parlando di “trasferimento del lavoratore”, ci si riferisce spesso ed impropriamente al cambiamento delle mansioni che vengono assegnate al dipendente.
In realtà, quando parliamo di trasferimento dei dipendenti, facciamo riferimento ad un provvedimento adottato dal datore di lavoro, attraverso il quale dispone lo spostamento del dipendente tra sedi diverse della stessa azienda.
Il trasferimento del lavoratore riguarda dunque non le mansioni attribuite, ma il luogo ove esse vengono svolte, da una sede ad un’altra dell’impresa.
Normalmente, la sede “naturale” di svolgimento della prestazione lavorativa è quella indicata nel contratto di assunzione, ed essa rimane per tutta la sua durata. Fermo restando che può essere anche richiesto dal dipendente, il trasferimento del lavoratore altro non è che uno strumento “eccezionale” in mano al datore di lavoro, caratterizzante il suo potere direttivo e organizzativo, adibito a soddisfare le varie esigenze aziendali tramite l’allocazione del personale.
Per controbilanciare tale potere “unilaterale” del datore, la disciplina sul trasferimento del lavoratore dipendente è fortemente garantista nei confronti di quest’ultimo.
IL TRASFERIMENTO DEL LAVORATORE ALL’INTERNO DELL’UNITA’ PRODUTTIVA
Non si parla di trasferimento di dipendenti nel caso di uno spostamento “interno”, cioè circoscritto alla stessa articolazione produttiva.
Per la Cassazione (sentenza n. 34014/2021) il trasferimento dei dipendenti sussiste solo ove muti in misura apprezzabile la sede geografica presso cui sono chiamati a rendere la prestazione. Viceversa, tale fattispecie non sussiste nel caso in cui a variare sia unicamente l’ufficio, “salvo i casi in cui l’unità produttiva comprenda uffici notevolmente distanti tra loro” (Cassazione, ordinanza n. 17246/2018).
Peraltro, la Cassazione (sentenza n. 5892/1999) stabilisce che “ricade sul datore di lavoro, al fine di comprovare la legittimità del trasferimento, l’onere di dimostrare che i luoghi di provenienza e destinazione costituiscono unità produttiva”.
Inoltre,“ai fini dell’applicabilità dell’art. 2103 codice civile, deve intendersi come unità produttiva ogni entità aziendale – anche articolata in organismi minori – che si caratterizzi per condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica ed amministrativa tali che in esse si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale dell’attività produttiva aziendale”. (Tribunale di Roma, sentenza del 12/12/2001).
QUALE DIFFERENZA TRA LA TRASFERTA E IL TRASFERIMENTO DEL LAVORATORE DIPENDENTE
L’istituto del trasferimento del lavoratore non deve essere confuso con la trasferta e con il distacco, la cui diversità si apprezza sul trattamento giuslavoristico, retributivo, previdenziale e fiscale del dipendente.
Tutti gli istituti attengono alla mobilità del dipendente all’interno della stessa azienda, e rispondono alle esigenze dell’imprenditore, ma mentre la differenza tra trasferimento dei dipendenti e trasferta si apprezza sul piano temporale, la differenza tra trasferimento e distacco coinvolge il piano soggettivo.
Per quanto riguarda la differenza tra trasferimento e trasferta, mentre il trasferimento del dipendente ha carattere stabile e definitivo, la trasferta risponde ad esigenze temporanee e transitorie del datore di lavoro, talvolta non prevedibili al momento dell’assunzione.
Per citare la Cassazione (sentenza n. 8004/1998) “La cosiddetta trasferta si distingue dal trasferimento perché è indefettibilmente caratterizzata dalla temporaneità dell’assegnazione del lavoratore a una sede diversa da quella abituale, con la conseguenza che non spetta l’indennità di trasferta a chi esplica in maniera fissa e continuativa la propria attività presso una determinata località, anche se la sede di servizio risulti formalmente fissata in luogo diverso, dove, peraltro, il lavoratore non ha alcuna necessità di recarsi per l’espletamento delle mansioni affidategli”.
A fronte del disagio patito per il temporaneo trasferimento al lavoratore viene riconosciuta una indennità, detta “di trasferta”, il cui importo minimo viene stabilito dal contratto collettivo nazionale di lavoro.
La trasferta può rispondere ad un’esigenza imprevista del datore di lavoro, oppure può far parte del normale svolgimento del lavoro. Nel secondo caso, quando il dipendente si trova in uno stato di mobilità permanente, si parla di “trasfertismo”, tanto che nel contratto di assunzione non viene indicata la sede dello svolgimento della prestazione lavorativa.
QUALE DIFFERENZA TRA DISTACCO E TRASFERIMENTO DEL LAVORATORE
Ancora differente dal trasferimento del lavoratore è il suo distacco, che ai sensi dell’art. 30 del dlgs 276/2003 “si configura quando un datore di lavoro,per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attivita’ lavorativa”.
Mentre nella trasferta e nel trasferimento il lavoratore rimane alle dipendenze del proprio datore di lavoro, nel distacco vengono modificate le modalità della prestazione lavorativa pattuite nel contratto di assunzione ed il dipendente è posto temporaneamente sotto la direzione di un altro soggetto, pur rimanendo contrattualmente legato al proprio datore distaccante.
QUALI SONO LE CONDIZIONI DEL TRASFERIMENTO DEL LAVORATORE?
Il legislatore stabilisce quando e come è possibile procedere al trasferimento del lavoratore. Ci si riferisce prevalentemente all’enunciato contenuto nell’art. 2103 comma 8 cod. civ. in base al quale “il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.
Lo spostamento del lavoratore deve essere causato da esigenze organizzative, tecniche e produttive, “con riferimento sia alla sede di provenienza che a quella di destinazione” (Tribunale di Milano, sentenza del 20/5/2003) che devono coinvolgere un “processo di riorganizzazione interna comportante il venir meno delle mansioni in precedenza demandate al lavoratore medesimo” (Cassazione, ordinanza n. 15635/2020).
Ad esempio quando la presenza di quel determinato dipendente nell’unità produttiva iniziale non risulta più utile, oppure, considerate le sue qualità e competenze, appare più opportuno collocarlo in un altro settore (in tal senso, tra tutte, si veda Cass., sent. n. 1383/2019).
A tal proposito, la Cassazione ha ricondotto nelle alle esigenze tecniche, organizzative e produttive, di cui all’art. 2103 codice civile, anche la incompatibilità aziendale, “ trovando la sua ragione nello stato di disorganizzazione e disfunzione dell’unità produttiva” e non in ragioni punitive o disciplinari (Cassazione, ordinanza n. 27226/2018). Nella specie, è stato ritenuto legittimo il trasferimento del lavoratore disposto per risolvere la conflittualità con altra dipendente, sfociata in denunce penali reciproche, sebbene non strettamente inerenti all’ambito lavorativo, in quanto suscettibile di determinare disservizi all’interno della piccola unità produttiva ove prestavano servizio.
L’AUTONOMIA DEL DATORE NEL TRASFERIMENTO DEL LAVORATORE
Ciò detto, nel vaglio di legittimità del provvedimento di trasferimento del lavoratore, il giudice non può spingersi a valutare il merito o l’opportunità del trasferimento, che rimane appannaggio del datore di lavoro in base alla autonomia consentitagli in primis dall’art. 41 Costituzione. Come affermato dal Tribunale di Roma (sentenza n. 5490/2021), il potere dispositivo del datore di lavoro in ordine al luogo di adempimento della prestazione lavorativa non è sindacabile dal giudice sotto il profilo dell’opportunità, “potendo anche estrinsecarsi nella scelta tra più soluzioni organizzative che siano tutte egualmente ragionevoli, senza che l’inevitabilità del trasferimento del lavoratore, determinata dalla inutilizzabilità della sua prestazione lavorativa nel posto di provenienza perché soppresso e dalla vacanza del posto ove lo stesso sia trasferito, costituisca requisito di legittimità del suo provvedimento.”
In altre parole, il controllo giurisdizionale sulle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato, deve accertare solo che vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell’impresa e, trovando un preciso limite nel principio di libertà dell’iniziativa economica privata, il controllo stesso non può essere esteso al merito della scelta imprenditoriale, né questa deve presentare necessariamente i caratteri della inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento sia una tra le scelte ragionevoli che il datore di lavoro possa adottare sul piano tecnico, organizzativo o produttivo (Cass., ord. n. 27266/2018).
COME DEVE AVVENIRE IL TRASFERIMENTO DEL LAVORATORE
In merito alle modalità, la giurisprudenza di legittimità è concorde nel ritenere che, in via generale, la forma scritta non sia necessaria per comunicare il trasferimento di dipendenti e pertanto, il trasferimento può essere comunicato anche oralmente o con qualsiasi altro mezzo. Nemmeno è richiesta la specifica indicazione dei motivi del trasferimento dei dipendenti, né un termine di preavviso (Cassazione, sentenza n. 1383/2019).
Alcuni contratti collettivi possono richiedere sia la forma scritta ab sustantiam della lettera di trasferimento, al fine di facilitare il lavoratore nella verifica delle condizioni di legittimità, sia un termine minimo di preavviso.
I motivi devono essere comunicati in caso di specifica richiesta del lavoratore (in tal senso si veda, tra tutte, Cass. sent. n. 614/2019) qualora la lettera di trasferimento non li conenga.
La mancanza del preavviso del trasferimento del lavoratore non ne determina la nullità, ma il diritto del lavoratore ad essere tenuto indenne dal pregiudizio conseguente al maggior disagio sopportato (Cassazione, ordinanza n. 13968/2018) attraverso la corresponsione di una indennità.
COME FUNZIONA IL TRASFERIMENTO DEL LAVORATORE NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Vediamo come sono disciplinati i trasferimenti nel pubblico impiego.
A seguito della contrattualizzazione del lavoro pubblico, la disciplina del contratto di lavoro provato, ivi compreso il trasferimento del lavoratore, si applica anche al settore dell’impiego pubblico, salvo che sia espressamente previsto diversamente.
Anche il trasferimento nel pubblico impiego ha la funzione di ottimizzare le risorse umane impiegate nei vari uffici e di far fronte ad eventuali esigenze dell’amministrazione.
Ad esempio, quando non è possibile attendere lo svolgimento di un concorso pubblico, l’Ente pubblico ha la possibilità di spostare dipendenti da un ufficio ad un altro, per supplire ad una determinata esigenza di personale.
I trasferimenti del pubblico impiego “di autorità” sono regolati dall’art. 30 del dlgs n. 165/2001, secondo cui “i dipendenti possono essere trasferiti all’interno della stessa amministrazione o, previo accordo tra le amministrazioni interessate,in altra amministrazione, in sedi collocate nel territorio dello stesso comune ovvero a distanza non superiore a cinquanta chilometri dalla sede cui sono adibiti”.
Varie situazioni sono legate al tema della mobilità, come ad esempio il passaggio diretto di personale tra diverse amministrazioni (v. art. 30 d. lgs. n. 165/2001); le eccedenze di personale; la mobilità collettiva; lo scambio di funzionari appartenenti a Paesi diversi; il passaggio di dipendenti per effetto di trasferimento di attività; oppure il semplice trasferimento di ufficio o per incompatibilità ambientale.
Come affermato dalla Cassazione (ordinanza n. 39896/2021) in tema di trasferimento nella pubblica amministrazione tra enti pubblici non economici, ai sensi dell’art. 31 del d.lgs. n. 165 del 2001, “nel caso di invalidità del trasferimento di attività accertata giudizialmente, il rapporto di lavoro permane con l’ente trasferente e se ne instaura uno nuovo e diverso con l’ente trasferitario presso cui il dipendente abbia materialmente continuato a lavorare; ne consegue che la responsabilità per violazione dell’art. 2103 c.c. deve essere imputata a quest’ultimo ente, in quanto l’incardinamento del lavoratore nei suoi ruoli, per quanto poi caducato, non può esimere l’ente in questione dalle responsabilità datoriali conseguenti alla relazione di fatto che si è nelle more instaurata.”
TRASFERIMENTO DEL LAVORATORE: COSA SI INTENDE PER PASSAGGIO DIRETTO DEI DIPENDENTI
Il passaggio diretto dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni è regolato dal combinato disposto dell’art. 30 del decreto legislativo n. 165/2001 e dell’art. 1406 cod. civ..
Queste hanno la possibilità di assegnare posti vacanti in organico, mediante il passaggio diretto di dipendenti che abbiano una qualifica corrispondente a quella da ricoprire, e che siano allo stato in servizio presso altre amministrazioni. È però richiesto che tali dipendenti facciano domanda di trasferimento e che vi sia l’assenso dell’amministrazione di appartenenza.
Le pubbliche amministrazioni fissano preventivamente i requisiti e le competenze professionali richieste e pubblicano sul loro sito istituzionale per almeno trenta giorni, il bando nel quale sono indicati i posti che intendono ricoprire tramite passaggio diretto di dipendenti di altre amministrazioni, con la specifica indicazione dei requisiti da possedere.
TRASFERIMENTO DEL DIPENDENTE: IL TRASFERIMENTO DELLA LAVORATRICE MADRE
La disciplina giuslavoristica prevede disposizioni speciali per particolari categorie di lavoratori. è il caso del trasferimento della lavoratrice madre e del trasferimento del lavoratore disabile.
In base all’art. 56, comma 1, del decreto legislativo n. 151/2001, la madre lavoratrice, una volta terminato il periodo di maternità, ha diritto a conservare il posto di lavoro, salvo rinuncia, ed a rientrare con le stesse mansioni e nella stessa unità produttiva dove risultava impiegata prima della gravidanza o in una diversa, purché sita nello stesso comune.
Inoltre, la norma pone il divieto di trasferimento della lavoratrice madre fino al compimento del primo di età del figlio.
La giurisprudenza ritiene che, a tali condizioni, il rifiuto del trasferimento della lavoratrice madre, non sia giusta causa di licenziamento: pur comportando un’assenza ingiustificata dal posto di lavoro, deve essere valutato tenendo in considerazione le particolari condizioni psico-fisiche legate alla gravidanza o alla maternità. Il che esclude la gravità del condotta di rifiuto (Cass., ord. n. 16697/2018).
Il trasferimento della madre lavoratrice e del padre lavoratore è vietato, ai sensi del comma 3, anche al rientro dai periodi di congedo, permesso o riposo disciplinati dal testo unico in materia di tutela e sostegno della maternita’ e della paternita’,
QUANDO È POSSIBILE IL TRASFERIMENTO DEL LAVORATORE DISABILE
Oltre al trasferimento della lavoratrice madre, anche il trasferimento del lavoratore disabile, ancorchè assunto in base a reclutamenti di categorie protette, è condizionato al suo consenso.
Quando si tratta di una disabilità particolarmente grave debitamente certificata e accertata da apposite commissioni tecniche, e non di invalidità civile, l’art. 33 comma 6 della legge 104/1992 stabilisce che “La persona handicappata maggiorenne in situazione di gravita’ puo’ usufruire alternativamente dei permessi di cui ai commi 2 e 3,ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro piu’ vicina al proprio domicilio e non puo’ essere trasferita in altra sede,senza il suo consenso”.
Anche se l’imprenditore dimostri l’esistenza delle esigenze organizzative e produttive ex art. 2103 comma 8 cod. civ., non potrà procedere al trasferimento del lavoratore disabile.
Tuttavia, il divieto del trasferimento del lavoratore disabile non si configura come incondizionato, “giacché esso – come dimostrato anche dalla presenza dell’inciso “ove possibile” nella richiamata disposizione – può essere fatto valere allorquando, alla stregua di un equo bilanciamento tra tutti gli interessi implicati, il suo esercizio non finisca per ledere in maniera consistente le esigenze economiche, produttive od organizzative dell’impresa” (Tribunale di Roma, sentenza 8476/2020).
Si ammettono quindi alcune deroghe del tutto eccezionali al divieto di trasferimento del lavoratore disabile:
- ove sia accertata, anche in sede giurisdizionale, l’incompatibilità della permanenza del lavoratore nella sede di lavoro (Cassazione, sentenza n. 24775/2013).
- quando l’azienda realizzi una totale soppressione dell’unità produttiva nella quale era impiegato il dipendente in
- questione, come ad esempio la chiusura di uno stabilimento;
- quando il trasferimento del lavoratore disabile è l’unica alternativa al licenziamento;
- quando vi siano i presupposti dell’incompatibilità ambientale;
- quando il trasferimento avviene all’interno dello stesso Comune se non comporta maggiori difficoltà al lavoratore disabile.
QUALI SONO LE REGOLE A TUTELA DEI DIPENDENTI NELLE IPOTESI DI TRASFERIMENTO D’AZIENDA
Il trasferimento d’azienda è una delle vicende dell’impresa che maggiormente interessa la continuazione del rapporto di lavoro tra il datore e il dipendente.
Quale rapporto esiste tra trasferimento d’azienda e tutela del lavoratore?
Ai sensi dell’art. 2112 cod. civ. il trasferimento d’azienda è “qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, (…) e che conserva nel trasferimento la propria identità (…).”
Orbene, in questi casi il legislatore garantisce la continuazione del rapporto lavorativo, lasciando invariato lo stipendio e l’inquadramento del dipendente all’interno della nuova realtà lavorativa.
Il rapporto di lavoro stipulato con il cedente, continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano e tutti quelli precedentemente acquisiti.
Quindi il trasferimento d’azienda non può essere causa diretta di licenziamento dei dipendenti.
Tuttavia può accadere che soprattutto il trasferimento del ramo d’azienda, si traduca in un licenziamento “per fatti concludenti”. Si pensi al caso in cui l’imprenditore, dopo il trasferimento dei dipendenti presso una particolare unità produttiva, decida di alienare quel ramo.
Anche per quanto riguarda i trasferimenti di lavoro si continua ad applicare l’art. 2103 cod. civ. e pertanto il trasferimento dei dipendenti è legittimo solo a fronte di rilevanti ed effettive ragioni tecniche, organizzative e produttive. Se invece il trasferimento del lavoratore in un ramo aziendale è preordinato alla futura cessione ad un’altra azienda, deve considerarsi nullo per violazione di norma imperativa (art. 1418 cod. civ.) e per motivo illecito (ex artt. 1324 e 1345 cod. civ.) oltre che in spregio al dovere di buona fede e correttezza di cui all’art. 1375 cod. civ. (Cassazione, sentenza n. 11578/1990).
Come ha affermato, in una risalente sentenza (del 16.12.1998), il Pretore di Pisa “Dalla violazione dell’art. 2103 c.c. deriva la nullità del trasferimento del lavoratore con la conseguenza che questi ha diritto a ottenere la reintegrazione nell’originario posto di lavoro anche quando sia passato alle dipendenze di altro datore di lavoro per effetto della cessione del ramo di azienda presso il quale era stato illegittimamente trasferito.”
Per un approfondimento sul tema dei trasferimenti d’azienda e della cessione del ramo d’azienda, si consiglia la lettura di questo articolo e di questo articolo.
TRASFERIMENTO DEL LAVORATORE: QUANDO POSSONO ESSERE RIFIUTATI I TRASFERIMENTI DI LAVORO?
Può accadere che il lavoratore trasferito non abbia intenzione di spostarsi nella nuova sede di lavoro, ad esempio, quando sia molto lontana dal luogo di residenza.
Nella maggior parte dei casi di rifiuto del trasferimento di lavoro, l’azienda procede al licenziamento per giusta causa, sulla base dell’assenza ingiustificata del lavoratore sul posto di lavoro.
Bisogna chiedersi se sia possibile rifiutare un trasferimento di lavoro, senza incorrere in gravi sanzioni come il licenziamento.
La giurisprudenza di legittimità non fornisce una risposta univoca. Da un lato, si ritiene che non sia possibile in nessun caso rifiutare il trasferimento di lavoro quale espressione del potere direttivo datoriale, fatti salvi i casi di illegittimità.
Altro orientamento, invece, sostiene che il lavoratore possa legittimamente rifiutare il trasferimento di lavoro quando il provvedimento datoriale appaia privo dei requisiti richiesti dalla legge (in tal senso Cass. sent. n. 11180/2019). Nel caso sarà sempre opportuno consultare il proprio legale di fiducia al fine di individuare la strategia migliore da adottare al verificarsi di trasferimenti di lavoro di dubbia legittimità.
COME IMPUGNARE IL PROVVEDIMENTO DI TRASFERIMENTO DEL LAVORATORE
Nel caso della insussistenza dei requisiti richiesti dall’art. 2103 comma 8 cod. civ., il trasferimento del lavoratore può essere “annullabile”. Può essere altresì “nullo”, ad esempio perché discriminatorio.
Il provvedimento di trasferimento del lavoratore può essere impugnato, ma la legge prevede termini molto stringenti.
Appena ricevuta la comunicazione di trasferimento il lavoratore dovrebbe immediatamente rivolgersi al proprio legale o ad un sindacato. La normativa di riferimento è la legge n. 183/2010 con la quale sono stati statuiti anche i termini per l’impugnazione del trasferimento del lavoratore. In base alla nuova normativa, il lavoratore deve impugnare il trasferimento di lavoro entro 60 giorni dalla data nella quale gli viene comunicato (impugnazione cd “stragiudiziale” ex art. 6, co. 1, L. n. 604/1966) e nei successivi 180 giorni deve depositare il ricorso in Tribunale ex art. 414 cod. proc. civ. o procedere con la richiesta di conciliazione (art. 6, co. 2, L. n. 604/1966). Qualora la conciliazione (o l’arbitrato) non vada a buon fine, il lavoratore ha 60 giorni per depositare il ricorso al giudice del lavoro, sempre assistito dal proprio avvocato.
Recentemente, la Corte Costituzionale (sentenza n. 212/2020) ha aperto alla possibilità di impugnare il provvedimento di trasferimento del lavoratore direttamente con un ricorso d’urgenza ex artt. 669-bis, 669-ter e 700 c.p.c., , il quale è idoneo ad impedire, se proposto nel termine di decadenza, la decadenza dell’impugnazione stragiudiziale.
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